Roma Tiburtina
- Francesco
- 5 dic 2016
- Tempo di lettura: 4 min

Amo le stazioni dei bus. Sono come dei grandi mostri fagocitanti. Mangiano tutto. Tutti. Gli amori, le sigarette e la condensa. E cagano. Mangiano persone, li attirano lì con la scusa di un viaggio, di tornare all'università da fuorisede, di tornare a casa dopo essere andati a lasciare la ragazza in un'altra città. Tutti lì condensati. Mangiati e sputati dal culo. Così dopo la digestione le stazioni evacuano e si svuotano di bus e di persone. E non rimane nessuno. Solo io.
Io che mi metto al baretto davanti con i tavolini rossi della coca cola e osservo tutti e ho un cappuccino troppo caldo da bere sotto il mento e ho un taccuino verde di carta riciclata con sopra dei cuori non disegnati da me che ho cancellato maldestramente con un evidenziatore giallo con l'unico risultato di aver sottolineato la presenza di quei due cuori che alla fine forse era quello che volevo.
E respiro solo tabacco e condensa di novembre. Il 25 novembre.
Mi metto lì, osservo e scrivo; un dettaglio, una mano, una sciarpa di un colore strano. Ora un giapponese è inciampato sul marciapiede e io sorrido fuori di me mentre dentro di me mi sbellico. Ora mi sento subito in colpa perchè sembra si sia rotto un dente; tanti altri piccoli parenti giapponesi lo soccorrono.
La stazione che amo di più è quella di Roma Tiburtina. Quella della mia città è troppo piccola, non sembra neanche una stazione. Quella di Bologna è troppo grande, si sviluppa in lunghezza e mi disorienta. E non ne conosco altre significative.
Quella di Tiburtina ha tutto. È abbastanza piccolo lo spiazzo e puoi vedere tutto e tutti. Ha il giusto degrado. E dei bar sotto sotto decenti.
Io sono qui. Nessuno se ne accorge. La parabola della mia vita. C'ero sempre stato. Nessuno se n'era accorto. Tutte le ragazze che inevitabilmente si innamorano di me mi confessano di non aver mai fatto caso a me prima che io prendessi coraggio. Io invece avevo fatto caso a loro, quando mi batteva il cuore per la città a osservarle e sorriderle impacciato. Io c'ero. Nessuno se n'è accorto. La parabola del perfetto osservatore. Onnisciente e ininfluente nello svolgere degli eventi.
E osservo.
Una coppia mano per la mano si stringe attraverso i guanti di lana neri e aspetta l'apertura delle porte di un Flixbus diretto a... Strizzo gli occhi, aumenta la miopia. Aix-en-Provence. Wow. Sud della Francia, città delle mille fontane nella valle del Rodano. (Anche un osservatore, per essere onnisciente, ha bisogno di Google).
Si guardano sorridenti; lei dopo qualche secondo distoglie lo sguardo che torna al punto di partenza, a terra scrutandosi le nuove scarpe a stivaletto di camoscio. Lui continua ad osservarla, la ama alla follia. La prova del nove del loro futuro. 3 anni di fidanzamento dopo, durante un viaggio ad Agosto a Barcellona prenotato su internet, una station wagon della Ford imboccherà contromano Carrer de Napols e più o meno all'angolo con Carrer de Mallorca, all'altezza di Passatge de Gaiolà, centrerà in pieno entrambi che camminavano sul marciapiede e osservavano il sole che si suicidava tra i rami degli alberi. Lui in coma. Lei illesa. Dopo tre mesi di coma farmacologico lui si sveglierà. Quattro giorni dopo lei confesserà, con gli occhi deragliati dalle lacrime, che parallelamente alla storia con lui, scopa da due anni con un buttafuori di origini africane di una discoteca di Latina. Lui non la prenderà bene. Tanti anni di riabilitazione dopo, a Brescia, aprirà una start up nel settore dell'e-commerce. Adotterà un bambino ucraino, gli insegnerà a fidarsi degli altri, di sé stesso ma più di tutto dei suoi sentimenti. Il 25 novembre, tra 13 anni, lo accompagnerà a casa della sua prima fidanzatina.
Certe volte mi chiedo se io stia vivendo o solo registrando le vite degli altri.
Una coppia litiga, lei è nervosissima. Si agita e non conclude le frasi che inizia. Lui mi sembra sconfitto ma aggressivo. Mi ricorda me. La tocca in maniera violenta. Credo abbia bevuto.
Soffio nel cappuccino per raffreddarlo, lo porto alla bocca, trattengo dentro il caffè per qualche secondo e con la lingua lo mescolo. Assaporo la miscela Illy. Rialzo gli occhi. Cazzo!
Mi devo esser perso qualcosa perchè lei è a terra e sono accorsi due signori con la barba bianca e i capelli all'insù. Le ha tirato una sberla credo, di rovescio con l'anello al dito medio. A lei scorre un rivolo di sangue dal naso, cade giù, si ferma sul mento e indugia. Aspetta che altre gocce lo raggiungano, che scivolino e lo abbraccino, per poi cadere tutte insieme sull'asfalto color piccione. Un passante urla a gran voce dall'altro capo del terminal di chiamare la polizia. Lo urla talmente forte che si tradisce e tutti capiscono le sue origini calabresi. Se ne vergogna, se ne accorge e diventa bordeaux. Una vita a mascherare con amici e conoscenti alla fermata della metro, inventandosi di provenire da Prati e poi quel giorno sbandierarlo così in maniera palese a una cinquantina di sconosciuti alla stazione dei bus. Che vita di merda.
Intanto che non arriva la polizia, porta in caserma il ragazzo e la tipa viene caricata nell'ambulanza, mi soffermo sulla scollatura di una ragazza intenta a raccogliere 20 cent da terra, palesando in maniera anche volgare le sue tette a me e a due anziani che leggono l'Internazionale. Uno dei due proprio in quell'istante alza lo sguardo e intercetta la notiziona. Ha tipo un soffio al cuore, tanto tra poco arriverà l'ambulanza. Una quarta di seno e un piercing sul capezzolo destro. Il vecchio ritorna stabile, senza defibrillatore, ma attimi di panico.
Poi alza lo sguardo e dice all'amico: “Qua ci sta scritto che la depressione è l'unità di misura della distanza tra noi e Dio. Più uno è depresso e più significa che avverte questa distanza. Ma, proprio perchè conscio del distacco, lo colma istantaneamente e si sovrascrive alla figura di Dio. Che ne pensi?”
“E' vero. Ti ricordi il figlio di Pino? Quello che si è suicidato roba di 15 anni fa buttandosi dal balcone?”
“Si”
“ Bhè, io quello me lo ricordo bello come un dio”
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